Elogio dell’errore
Per tutti i musicisti, è inevitabile confrontarsi di continuo con la paura degli errori: una nota sbagliata o mal intonata, oppure un intoppo nel procedere dell’esecuzione. Per la maggior parte degli studenti di musica, l’errore è un fatto puramente negativo, a cui si guarda con timore, e che si cerca di evitare ed esorcizzare in tutti i modi. A mio parere, invece, ogni errore è un evento “fortunato”, in quanto può rappresentare un’importante occasione di crescita. Mi spiego meglio: nella pratica dello studio quotidiano sono proprio gli errori che ci consentono di prendere atto dei dettagli ancora da perfezionare. È proprio quella nota sbagliata che ci fa notare che non abbiamo dedicato sufficiente attenzione a quel determinato passaggio, o che non abbiamo ancora ben focalizzato la temperie espressiva di quel tema. A ben vedere, infatti, gli errori capitano quasi sempre sui dettagli a cui non diamo la giusta importanza. Difficilmente, viceversa, capita di sbagliare una nota o una frase che vogliamo eseguire con particolare intensità e naturalezza.
Come nota il pianista Stephen Hough in un suo recente blog sul Telegraph, la causa prossima di un errore al pianoforte è legata al fatto che il dito non si trova sul tasto giusto al momento giusto. Può sembrare un’ovvietà, ma non lo è: molti pianisti durante lo studio non fanno particolare attenzione alla posizione delle dita sui tasti, e a come programmare i cambi di posizione in modo da far sì che ogni dito sia già sul tasto giusto prima di suonare quel tasto. Se lo studio viene impostato anche sotto questo aspetto, ossia programmando e “ingegnerizzando” i movimenti e gli sguardi, così da guidare le dita sui tasti con la migliore economia di movimenti e con totale consapevolezza muscolare, una buona parte del lavoro è già compiuto. E più si è coscienti dei propri movimenti e delle tensioni musicali che ad essi sono legate, più si diventa sereni nell’esecuzione, così da dedicarsi agli aspetti puramente musicali senza le spiacevole e frustrante “paura di sbagliare”.
E, comunque sia, val bene ricordare che un errore in sé passa anche inosservato se è in un contesto di grande intensità musicale. Viceversa, un ‘interpretazione fredda e calcolata, finalizzata solo ad evitare gli errori, risulterà molto più “sbagliata” di una interpretazione spontanea, profonda e non impeccabile. Dopo tutto, in musica l’impeccabilità non esiste, e, come disse Murray Perahia a proposito del pianismo di Alfred Cortot, “le sue note sbagliate erano molto più giuste delle mie note giuste”.
di Roberto Prosseda
Musicisti con il culto dell’immagine: glamour, imitatori e funzionari.
Guardando ai diversi approcci con cui i musicisti classici si pongono nei confronti del pubblico e dei media, appare evidente come l’immagine e la comunicazione abbiano un ruolo sempre più importante per determinare il successo professionale. È importante, quindi, che ogni artista si prenda cura di come la propria immagine viene gestita e veicolata.
Per taluni musicisti in carriera, tuttavia, pare che l’obiettivo primario non sia far musica nel migliore dei modi, cercando di essere il più possibile sinceri e fedeli alle intenzioni dei compositori, ma implementare il proprio successo personale tramite un attento lavoro sull’immagine, “usando” la musica per i propri fini personali: sono i “musicisti-glamour”. E, quando la cura dell’apparenza supera di gran lunga l’attenzione sul contenuto, vengono dubbi sull’autenticità di questo approccio. Il successo, però, spesso arride ai musicisti-glamour, e ciò dimostra come il pubblico, purtroppo, sia sempre più sensibile agli ammiccamenti di una bella foto in copertina o su un poster di un concerto, di pari passo con la sempre minore consapevolezza musicale dell’ascoltatore medio, pronto a lasciarsi illudere da attente campagne di marketing.
Molti musicisti seri[osi] sono, ovviamente, critici verso i “musicisti-glamour”, ai quali peraltro invidiano la facilità con cui arrivano al successo. Esiste, però, anche un eccesso opposto, quello dei “funzionari della musica”: costoro sono ancora troppo ancorati a realtà accademiche, e inconsciamente ripropongono schemi musicali e rituali formali appresi dai propri insegnanti o modelli, senza una reale coscienza del proprio ruolo nell’attuale società. Anche per loro, l’attenzione non è focalizzata sulla musica in sé, ma, paradossalmente, ancora una volta sull’immagine: un’immagine, però, niente affatto glamour, ma volutamente grigia, che si ostina a riproporre formalità e atteggiamenti che potevano forse avere un senso 50 anni fa (ma già allora vi erano grandi musicisti come Glenn Gould o Leonard Bernstein che erano per natura allergici ai cliché esteriori del “musicista classico”). I “funzionari della musica”, privi di individualità e sincerità, relegano il loro ruolo a quello impiegatizio di riproporre stilemi preesistenti. Così facendo, assumono una posizione paradossalmente simile a quelli dei musicisti glamour, con cui condividono l’assenza di motivazioni artistiche radicate e di un sincero messaggio da condividere: anche per loro, ciò che conta è il successo. Con la differenza che di solito non lo ottengono, tranne, forse, nei concorsi in cui anche le giurie sono composte da altrettanti “funzionari” (ossia dai loro insegnanti).
Vi è, inoltre, una terza categoria, non meno legata al culto dell’immagine (altrui): quella dei “musicisti imitatori”. Sono quelli che imitano consapevolmente modelli di grandi artisti, ma limitandosi all’apparenza: violinisti che fanno il verso a Uto Ughi o Jasha Heifetz, pianisti che tentano di reincarnarsi in Glenn Gould o Michelangeli. Ma un giovane pianista che ripropone la compassata ed elegante gestualità di Arturo Benedetti Michelangeli difficilmente ne potrà replicare anche il geniale carisma (che era peraltro originale: Michelangeli non imitava nessun altro). E, se anche riuscisse nella copia perfetta di un’esecuzione storica, siamo proprio sicuri che ciò abbia una utilità oggi? Che sia frutto di un suo sincero sentire? Un artista non dovrebbe essere soprattutto se stesso, e di conseguenza originale, portatore di un “proprio” messaggio artistico, da promulgare con coraggio, anche a costo di rompere schemi consolidati?
di Roberto Prosseda
Andreas Kern è un pianista e conduttore televisivo di Berlino. È inventore di nuovi format, come “Piano Battle” e “Pianocity”, e ha ideato, assieme a Roberto Prosseda, l’”Happy Cow Concert”, coprodotto da CremonaFiere. In questo intervento, da lui tenuto nell’ambito di Cremona Mondomusica 2014, Andreas espone il suo punto di vista sulla comunicazione della musica classica e presenta alcuni dei suoi progetti innovativi.
Tutto è cominciato quando avevo circa 20 anni, quindi quasi 20 anni fa. Stavo guardando un programma televisivo tedesco sulla musica classica, e rimasi così scioccato sull’approccio tradizionale con cui la musica era presentata, che mi chiesi: se io, musicista, dopo aver visto questo programma non mi sento affatto invogliato ad ascoltare musica classica, figuriamoci gli altri, che non sono già musicisti… L’obiettivo più importante per un programma di musica classica dovrebbe essere trasmettere al pubblico la passione per la musica. Quindi ho pensato di andare dal direttore di quella emittente televisiva e dirgli di cambiare le cose. Naturalmente ero troppo naive e non immaginavo di quanto sarebbe stato difficile superare le barriere di una mentalità rigida, spesso diffusa in quell’ambiente. Allora non passavo il tempo solo a suonare il pianoforte e a guardare la TV: vivevo in un piccolo appartamento studentesco a Berlino; avendo quindi lasciato la casa dei miei genitori, dove mia madre cucinava per me, dovevo imparare a far da mangiare. Così acquistai un DVD di Jamie Oliver, “The naked chef”. Lo ho visto molte volte, e ho iniziato ad analizzare i suoi programmi: volevo capire come riusciva a spiegare concetti complessi, come quelli dell’alta cucina, senza essere noioso, e appassionando all’argomento anche me! Allora ho capito che il suo segreto era molto semplice: raccontava storie. Semplici storie. Ad esempio: oggi mia madre mi viene a miei amici stanno venendo a trovarmi…vediamo cosa posso cucinare per lei. Oppure: i miei coinquilini stanno traslocando in un altro appartamento. Prima che vadano via, gli preparo dei sandwiches speciali…
Raccontare storie è la chiave per presentare in modo efficace e coinvolgente concetti complessi. Da parte mia, ho sempre lavorato sulle storie. Così ora vi dirò tre “storie” legate ai miei progetti principali.
In ambito televisivo, ho creato uno show per il canale ARTE, chiamato “Arte Lounge”. La storia è semplice: si tratta di presentare musica classica in un contesto insolito. La trasmissione infatti è ambientata in un Techno Club, ossia un luogo in cui i ragazzi della mia generazione sono abituati a stare. Gli artisti invitati sono provenienti da diversi ambiti musicali (classico, jazz, pop), così da intercettare pubblici interessati a diversi generi: chi guarda il programma per vedere l’artista pop, conoscerà anche qualcosa della musica classica, e ice versa. Io chiamo questo trucco “l’effetto Cavallo di Troia”: catturando l’interesse del grande pubblico, gli ho potuto fare scoprire artisti che cose che altrimenti non avrebbero mai conociuto, come, ad esempio, Pierre Laurent Aimard e Misha Maisky.
Nell’ambito della mia attività concertistica, ho creato un format chiamato “Piano battle”. La “storia” è che ogni spettatore presente piò votare. Il pubblico decide chi sarà il miglior pianista, tra i due contendenti. Io, infatti, “sfido a duello” un altro pianista: ci sono sei rounds, in cui ci confrontiamo su terreni diversi: da Chopin e Debussy all’improvvisazione su temi dati dal pubblico. Dopo ogni round, gli spettatori votano e chi si aggiudica ciascun round avanza di una posizione, in senso letterale: sposta, infatti, il suo pianoforte più avanti sul palco, avvicinandosi alla linea del traguardo. Naturalmente, lo spettacolo comprende anche varie prove interattive col pubblico, per coinvolgerlo al meglio. E certamente il fatto che ognuno debba votare comporta una maggiore attenzione nell’ascolto. Non abbiamo bisogno di esperti tra il pubblico, ma solo di persone che hanno voglia di seguire le loro sensazioni.
L’ultimo progetto di cui voglio dirvi è il festival “Pianocity”. Alcuni di voi forse ne hanno già sentito parlare: l’idea è di riempire di musica una città, in un singolo weekend. Ho presentato Pianocity per la prima volta a Berlino nel 2010. Il primo problema da risolvere è stato di reperire centinaia di pianisti e di pianoforti. Quindi ho pensato che il modo più semplice era che i pianisti suonassero…a casa propria. Così abbiamo organizzato 100 concerti nelle case di pianisti, sia dilettanti e professionisti, sia classici che jazz o pop. Ognuno è stato coinvolto, dai bambini ai nonni. I concerti sono stati tutti esauriti e altri 100 concerti sono stati orgnanizzati in altre sale, come, ad esempio, la green room della Philharmonie o il più grande salone di Berlino: l’IKEA! È stato magico. Il concetto era di riproporre Pianocity in altre nazioni, come l’Italia. Abbiamo già avuto Pianocity a Milano e Napoli. Stiamo ora preparando altre edizioni di Pianocity in altre città, come Londra e Bruxelles.
di Andreas Kern