OSSERVATORIO ARCHI E TASTI DI CREMONAFIERE Notiziario n. 27 del 29/02/2016

Ascoltare con gli occhi (di Roberto Prosseda)

La musica classica, e in particolar modo quella da camera, è sempre stata connotata da un certo grado di astrazione, quasi fosse indipendente da ogni aspetto legato all’immagine. Del resto, per definizione la musica strumentale (esclusa quella per il cinema o per il teatro) sembrerebbe svincolata dalla vista, essendo costituita da suoni che vengono percepiti dall’udito in maniera del tutto autonoma da stimoli visivi. Eppure tutti i musicisti sanno bene che ogni suono porta con sé un’immagine: magari non concreta, soggettiva, indefinita, ma pur sempre parte integrante del messaggio musicale. Anche l’ascoltatore è influenzato da ciò che vede durante un concerto, ed è facile appurare che, con diverse condizioni di luce e di campo visivo, la percezione del medesimo brano musicale sarà diversa.

Stupisce, quindi, che ancora oggi nei concerti di musica classica l’aspetto visivo sia spesso considerato secondario, se non addirittura trascurabile. I musicisti, spesso maniacalmente attenti alle minime sfumature timbriche della loro interpretazione, di solito non si curano di ciò che il pubblico vede di loro e della cornice visiva nella quale la loro performance prende vita. Ben lungi dal volere incoraggiare una prevalenza dell’immagine sul contenuto, questo pensiero punta, però, a far luce sull’importanza del rapporto tra messaggio sonoro e contenuto visivo. La cura di questo aspetto non è necessariamente a discapito del contenuto musicale, ma, semmai, lo può valorizzare più efficacemente.

Un esempio lampante in tal senso è quello del grande pianista russo Sviatoslav Richter. Negli ultimi anni della sua carriera, Richter scelse di suonare non più a memoria, ma con lo spartito sul leggio del pianoforte. Le sue prescrizioni in termini di illuminazione della scena erano molto precise e peculiari: pochissima luce sul pubblico in sala e una piccola lampada da tavolo poggiata sul pianoforte, ad illuminare lo spartito, più che il pianista. Ho personalmente assistito a tre dei concerti di Richter, e, a distanza di 25 anni, ne ho un ricordo ancora vivido, e, oserei dire, fotografico.

E il grado di ascetismo di quelle interpretazioni mi è rimasto impresso anche grazie al contesto visivo a cui erano abbinate. La musica si ascolta anche con gli occhi.

Come imparare più rapidamente?

Una ricerca della John Hopkins University, pubblicata il 28 gennaio 2016 sulla rivista Current Biology, ha verificato come vari tipi di pratica possono migliorare la rapidità dell’apprendimento psicomotorio.

I risultati hanno mostrato come il modo più efficace per imparare una determinata sequenza di movimenti – e ciò vale, quindi, per la pratica di uno strumento musicale – non sia la ripetizione pedissequa dello stesso passaggio, ma quella con leggere alterazioni dei parametri (velocità, direzione, forza).

L’esperimento è stato condotto su 86 volontari, ai quali è stato chiesto di compiere un esercizio di controllo del cursore su un monitor attraverso un particolare mouse: una sorta di videogame in cui utilizzare vari movimenti complessi della mano e del braccio.

Dopo avere fatto il primo test, i volontari sono stati divisi in tre gruppi: un primo gruppo ha “studiato” l’esercizio ripetendolo più volte per un determinato lasso di tempo; un secondo gruppo lo ha studiato in versioni alterate, allenandosi quindi a controllare il cursore con movimenti leggermente diversi; un terzo gruppo non ha fatto alcuna pratica. Il giorno dopo, tutti i volontari sono stati sottoposti al test nuovamente. Il gruppo che aveva studiato con parametri alterati ha ottenuto risultati di gran lunga migliori, dimostrando quindi che la mente apprende più rapidamente quando durante lo studio si aggiungono leggere varianti al movimento da imparare. In sintesi, come afferma l’autore della ricerca, Pablo A. Celnik, la memoria psicomotoria rafforza la propria efficacia quando viene costantemente modificata con nuove informazioni da aggiungere a quelle già apprese.

Ciò genera un apprendimento maggiore nello stesso arco di tempo, e può sensibilmente migliorare i risultati dello studio quotidiano dei musicisti.

L’articolo intero è disponibile qui (in inglese)

 

Troppe sonate di Beethoven!

Il critico e scrittore inglese Jeremy Nicholas è uno dei più acuti e brillanti osservatori dell’ambiente musicale odierno. I suoi articoli su Gramophone sono spesso spiazzanti e mostrano uno sguardo critico e fuori dal coro sulle tendenze artistiche e culturali del mondo concertistico e discografico di oggi.

Jeremy Nicholas è stato ospite di Cremona Mondomusica 2015, prendendo parte alla tavola rotonda “L’Informazione Musicale 2.0”, in cui ha letto una relazione intitolata “Troppe sonate di Beethoven”, che ha ora pubblicato anche sul suo sito ufficiale jeremynicholas.com. Il suo intervento iniziava così:

“Non avvertite una sensazione di déjà vu quando sfogliate i programmi delle stagioni concertistiche? Non sembrano tutti piuttosto familiari, anno dopo anno? Vi sono dei brani particolarmente intriganti o sorprendenti? Temo di no…”

Jeremy Nicholas incoraggia i musicisti e i direttori artistici ad osare di più nella scelta del repertorio, proponendo musiche di raro ascolto e inedite, oltre ai soliti brani che ogni anno vengono riprogrammati per l’ennesima volta. E non è vero che il pubblico e il mercato rispondono negativamente: anzi, vi sono molti esempi di successi discografici e concertistici basati su musiche rare. Il testo integrale, in inglese, è disponibile qui

 

György Kurtág suona Bach a 4 mani con la moglie

L’ungherese György Kurtág è uno dei massimi compositori viventi. Il suo amore per la musica di Bach è testimoniato dalle sue poetiche trascrizioni bachiane per pianoforte a quattro mani. In questo recente video, György Kurtág e la moglie Márta, entrambi novantenni, suonano tre di queste trascrizioni bachiane, mostrando un’unità di intenti e di respiro che lascia senza parole.
Clicca QUI per vedere il video

 

 

Professionismo e arte (di Roberto Prosseda)

Professionismo e arte sono due mondi che spesso vanno di pari passo, specialmente nell’ambito della musica classica: i migliori musicisti sono tutti dei “professionisti della musica”, ma il concetto di “professionismo”, quando applicato ad una interpretazione musicale, non può trascurare l’efficacia della comunicazione del messaggio artistico.

Oggi è sempre più diffusa l’idea che un musicista professionale debba avere un totale controllo su ciò che fa: giustissimo, naturalmente, se non fosse che questa può diventare una priorità che va a discapito della condivisione emotiva e dell’approfondimento interpretativo. Sempre più spesso, purtroppo, oggi il professionismo fa rima con la prudenza, con l’assenza di slanci ed entusiasmi, con la paura di prendersi dei rischi interpretativi pur di salvaguardare un “contegno” professionale che non ammette cedimenti.

Il discorso è certamente complesso e delicato. Ma bisognerebbe forse riconoscere i limiti di un sistema di formazione musicale, diffuso in Italia, basato su un repertorio limitato e su modelli interpretativi spesso imposti come calchi da riprodurre.

Ad esempio, è più professionale saper suonare gli Studi di Chopin copiando pedissequamente l’incisione di Maurizio Pollini (pur senza eguagliarne la tensione musicale), o riuscire a commuovere il pubblico in un recital, a discapito di qualche nota sporca?

Meglio dare la priorità ad un’esecuzione senza note sbagliate ma con gravi errori di “pronuncia” musicale, o prendersi dei rischi per rispettare le articolazioni e il fraseggio indicati dall’autore??

E, per contro, è più grave sporcare un passaggio virtuosistico perché lo si esegue con slancio e passione, o suonare quel passaggio stando solo attenti a non sbagliare, e quindi senza il dovuto entusiasmo e coinvolgimento?

 

 

Se il vino fa bene alla musica (di Roberto Prosseda)

Sono diversi i festival e i progetti concertistici che uniscono la degustazione di vino all’ascolto della musica. E, in effetti, le due cose hanno molto in comune, al punto che si possono facilmente invertire i termini: degustare la musica, ascoltare il vino.

Del resto, degustare un vino pregiato è un atto di profonda concentrazione. Ogni istante assume una precisa connotazione emotiva. La scansione del tempo si trasforma. Le note floreali o tanniche di un gran vino emergono in un graduale percorso temporale: il “tempo di ascolto” di una degustazione non è così diverso da quello di un capolavoro musicale. Anche assistere ad un concerto dal vivo richiede un’analoga attenzione a minimi dettagli, che pure possono trasformare l’ascolto in un’esperienza interiore di grande intensità e gratificazione. E anche i suoni hanno i loro sapori e retrogusti, corrispondenti alle diverse risonanze e alchimie timbriche che vengono diffuse dai musicisti.

Recentemente mi è capitato di tenere un recital presso le Cantine Jermann (www.jermann.it), nell’ambito del festival EnoArmonie. Durante l’ascolto del concerto, il pubblico degustava tre assaggi di altrettanti vini Jermann, a cui ho pensato di coordinare altrettanti ascolti di Mendelssohn, scelti secondo l’età: si è iniziato con un vino bianco giovane, accostato alla musica del Mendelssohn adolescente, per giungere ad un rosso più corposo, abbinato ai brani più maturi e intensi del compositore amburghese. Il risultato è stato sorprendentemente positivo: gli ascoltatori, stimolati anche dal punto di vista gustativo e olfattivo, sembravano più pronti a cogliere le minime sfumature del pianoforte, parallelamente all’ “ascolto” dei vini e del loro cangiante decantare.

In sintesi, grazie a ciò si è pervenuti ad una percezione maggiormente condivisa, e il fatto di trovarsi al di fuori delle consuetudini rituali di una tipica sala da concerto ha consentito a tutti, me compreso, di acquisire una più libera disposizione all’ascolto.

In base alla mia esperienza, posso testimoniare che i concerti più ispirati di cui ho memoria, ossia quelli in cui percepivo una speciale tensione emotiva tra interprete e pubblico, sono in stati quasi sempre concerti “privati”, tenuti in stanze di antichi palazzi, per un pubblico di alcune decine di persone. Quasi tutta la musica da camera, del resto, è stata scritta per essere suonata in simili contesti. E proprio nel silenzio e nel calore di un salone antico, o, perché no, di una cantina vinicola, possono emergere sfumature, respiri, allusioni che difficilmente un ascoltatore potrà cogliere in un grande auditorium moderno con la medesima intensità.