OSSERVATORIO ARCHI E TASTI DI CREMONAFIERE Notiziario n. 28 del 11/03/2016

Ascoltare il tempo (di Roberto Prosseda)

Il rapporto con il tempo è un elemento fondante di ogni interpretazione musicale. Il “tempo della musica, però, è ben diverso dal tempo che scandisce i ritmi quotidiani, in quanto si estende in un ambito chiuso, delimitato dalla durata della singola composizione: è un tempo al contempo interno ed esterno a noi stessi, ossia soggettivo ed oggettivo insieme.

La percezione del tempo da parte dell’ascoltatore è a sua volta soggettiva, e influenzata da tanti elementi, legati sia all’interprete, sia a fattori contingenti (riverbero della sala, distanza dalla fonte sonora, grado di ansia dell’ascoltatore, stabilità ritmica dell’esecuzione).

Una delle principali caratteristiche dei grandi interpreti (siano essi musicisti, attori, o danzatori od oratori) è quella di non avere mai un rapporto passivo, subordinato con il tempo. O, meglio, di non considerare il tempo come un’entità esterna a cui adeguarsi, ma, al contrario, come qualcosa che loro stessi possono plasmare, dandole la forma giusta in base alle esigenze espressive e drammaturgiche che la musica richiede, e al continuo feedback con il luogo in cui avviene la performance.

E, a ben vedere, alcuni grandi capolavori musicali, come, ad esempio, le ultime Sonate o gli ultimi Quartetti di Schubert, quando interpretate da artisti ispirati e carismatici hanno la capacità di farci “uscire dal tempo terreno”, portandoci in nuove dimensioni percettive, che rispondono ad altre leggi temporali.

Per dirla in altre parole, i grandi interpreti non “vanno a tempo”, ma “creano il tempo”. Del resto, l’ascoltatore percepisce la vertigine della velocità o l’incanto sospeso di un Adagio non soltanto a seconda della rapidità reale del tactus metronomico, bensì soprattutto in base all’energia motoria e alla tensione musicale comunicata dall’interprete. Questa non dipende solo dalla rapidità, dalla sapiente gestione dell’agogica e della dinamica, che sfrutta impercettibili cambi di tempo e di sfumature dinamiche in modo funzionale alla drammaturgia del brano.

Non basterebbe un lungo saggio per dissertare sulle infinite possibilità di gestire il tempo in musica, e non è questa la sede per tentare una più articolata analisi sull’argomento. Questo breve pensiero vuole, piuttosto, essere un incoraggiamento verso gli ascoltatori e gli interpreti a lasciarsi stupire e guidare dalla percezione soggettiva del tempo musicale, ad “ascoltarlo” nelle sue peculiarità.

Troppo spesso, ancora oggi, vi sono insegnanti di musica che insistono sull’ “andare a tempo”, sul “rispettare il tempo”, come se il tempo fosse soltanto quello scandito dall’asticella del metronomo o dalle lancette dell’orologio, al di fuori della musica e di noi stessi. Invece sono certo che le più appaganti e intense esperienze musicali possano avvenire quando si recuperi un rapporto naturale, organico, con il tempo, ascoltando interiormente il proprio “tempo soggettivo”, e lasciando che questo sia plasmato dall’intensità della grande musica.

I colori del suono (di Roberto Prosseda)

Il fascino dell’ascolto musicale è anche dato dalle numerose suggestioni sinestetiche che i suoni portano con sé. Durante l’ascolto o la lettura musicale è frequente associare colori precisi a certe armonie, con singolari coincidenze percettive da parte di diversi ascoltatori. Tra i compositori che più si sono occupati della sinestesia tra colori e musica, spiccano i nomi dei russi Nikolay Rimsky-Korsakov e Alexander Skrjabin, il quale costruì un proprio sistema compositivo basato su precisi abbinamenti tra colori e suoni.

Se, da un lato, non esiste ad oggi una corrispondenza univoca e oggettiva tra note e colori, è inequivocabile che l’idea musicale sia sempre legata ad un’immagine, spesso ben definita anche nei dettagli cromatici. Anche uno strumento apparentemente meccanico e “in bianco e nero” come il pianoforte può evocare una infinita gamma di chiaroscuri, grazie alla gestione dei rapporti dinamici fra le varie voci che compongono un accordo o una trama polifonica. E i maggiori compositori erano maestri proprio in questo, ossia nello sfruttare i mezzi a loro disposizione (gli strumenti dell’orchestra) per disegnare con i suoni, dando forme, contorni e colori alle loro idee musicali.

Sono innumerevoli gli esempi di direttori d’orchestra che durante le prove chiedono agli strumenti una sonorità “più blu”, o “meno violacea”. È ovvio che si tratta di un parlare per metafore, ma sono metafore spesso condivise da tanti musicisti, e ciò non può essere un caso: esiste, dunque, una dimensione della musica che trascende le qualità fisiche del suono, e che sfugge ad una classificazione scientifica.

Del resto, la grandezza della musica non è certo circoscrivibile con una descrizione verbale. A maggior ragione, sarebbe impossibile, oltre che inutile, cercare una corrispondenza matematica tra singoli suoni e altrettante tinte cromatiche. Il senso di questo scritto è, semmai, quello di incoraggiare musicisti e ascoltatori nel lasciar permeare la propria immaginazione visiva durante la performance musicale. In fin dei conti l’aspetto sonoro della musica che ascoltiamo non è altro che una proiezione, spesso solo parziale, di un’idea artistica ben più ampia. Nel caso dei grandi capolavori, il messaggio del compositore trascende i limiti sensoriali, uditivi e visivi, ed è in questi casi che attraverso i suoni si percepisce qualcosa in più, di non descrivibile, eppure ben presente e inequivocabile. La grandezza della musica risiede proprio in quel mistero, e noi abbiamo l’opportunità di coglierlo ad ogni ascolto, se riusciamo a porci nella giusta condizione.

Musica e spazio (di Roberto Prosseda)

“La musica è lo spazio tra le note”. Questa affermazione, attribuita a vari compositori, tra cui Claude Debussy, è una delle più suggestive e condivisibili definizioni di musica. Lo spazio è una categoria che non tutti associano istintivamente alla musica, eppure non potrebbe esistere un discorso musicale se ciascun suono non avesse un preciso posizionamento in rapporto con gli altri suoni della stessa composizione. Si può parlare di spazio a vari livelli: da quello, più immediato, legato alla posizione grafica delle note in una partitura, a quello, più astratto, evocato da particolari alchimie timbriche che proiettano l’ascoltatore in dimensioni di estrema distanza spaziale.

Lo spazio musicale è in stretta correlazione con il tempo, e la sua percezione è data proprio dalla gestione dell’agogica: il senso di grandi distanze è dato facilmente con un tempo dilatato e teso, e, viceversa, l’idea di uno spazio ristretto è resa con l’addensamento di più suoni in un breve arco di tempo. E, come il tempo, anche la percezione dello spazio in musica è strettamente soggettiva, e legata alla sensibilità del singolo ascoltatore e al contesto (anche visivo) in cui si trova.

Un’altra, affascinante e più concreta accezione di spazio in musica è data dalla distribuzione dei suoni tra i vari registri dell’orchestra o di un singolo strumento: molti compositori collocano i temi su differenti altezze, sfruttando così le peculiarità timbriche di ogni specifica tessitura di uno strumento, per distribuire i suoni nello spazio, come a disegnare una mappa musicale in cui ogni voce ha una specifica collocazione fisica.

Un ulteriore parametro che serve a definire le coordinate spaziali dei suoni è quello della dinamica: ad esempio, è sufficiente dosare due linee melodiche sovrapposte con dinamiche differenti, per posizionarne una in primo piano (quella più forte) e l’altra sullo sfondo. E questo principio è, ovviamente, applicabile con infiniti gradi e sfumature, specie nel caso di partiture con un maggior numero di voci.

Anche per gli interpreti, quindi, può essere molto utile avere una definita visione spaziale della musica che si esegue, e saper posizionare con esattezza ogni voce su una determinata posizione, gestendone di conseguenza le caratteristiche dinamiche e agogiche. Fuor di metafora, ciò significa saper dare ad ogni linea melodica una precisa connotazione timbrica, legata al grado di lontananza o di “distanza da terra” che l’interprete immagina. E ancor più affascinante è pensare ai temi musicali come oggetti-vettori in movimento nello spazio, ciascuno con una sua specifica direzione e velocità.

La musica, in ultima analisi, è basata sulle relazioni tra suoni, e quasi sempre si tratta di relazioni multiple e complesse. Più siamo in grado di cogliere le sfumature di queste relazioni, più l’esperienza di interpretazione e ascolto della musica sarà intensa e appagante.